Arte elettronica, generi e controculture
Artkernel | arte e new media, vol. 1, aprile 2011
Editore: Imuter editions
ISBN 978-88-903377-1-0
Testo integrale | Download Artkernel Vol. 1
ARTE ELETTRONICA. GENERI E CONTROCULTURE
Renato messina (rev.43-28/10/2022)
Introduzione
Il termine New Media Art abbraccia una vasta gamma di generi nati tra gli anni Sessanta e la metà del decennio scorso, la cui compenetrazione tecnologica ha condotto alla complessa natura degli odierni linguaggi multimediali. Nonostante il progresso dell’elettronica digitale abbia accomunato la rapida evoluzione di questi generi, in essi è possibile rintracciare prassi strumentali e codici specifici, caratterizzati da origini e percorsi di sviluppo comuni (come, ad esempio, per la performative art e l’interactive art), o da tradizioni e contesti sociali distanti (come, ad esempio, per l’hack art e la device art).
Muovendo dal presupposto che in ogni forma di multimedialità sia possibile evidenziare una tecnologia caratteristica predominante, nel presente saggio viene affrontata un’analisi riconducibile alla tradizionale specializzazione delle forme artistiche, in cui i limiti di un’indagine rivolta alla segmentazione di processi creativi, basati viceversa sulla sintesi e l’assimilazione, risultano pur funzionali all’individuazione degli apporti culturali e delle confluenze estetiche che hanno contribuito alla definizione stilistica dei generi trattati.
Un percorso storico rivolto in particolare all’esplorazione dei codici, dei circuiti e dei modi operativi appartenenti ai movimenti underground e alle controculture dell’arte elettronica. In cui l’impulso creativo e l’approfondimento tecnico procedono di pari passo, con una coerenza in grado di superare la datata accezione di sperimentalismo attribuita ad un’arte che è riuscita ad impossessarsi di strumenti sofisticatissimi nel corso di una sola generazione, creandoseli; come scrive Karsten Schmidt nel suo esemplare manifesto Rule making and breaking:”Use the right tool for the right job – make those tools!”. Le tecnologie di networking e la condivisione dei progetti e dei saperi (ad es. tramite le comunità, i forum, le mailing list, Processing, PureData, Arduino, etc.) rappresentano l’elemento portante delle controculture e della loro autonomia artistica. I programmi online dei festival e la diffusione libera delle opere in rete forniscono riferimenti chiari sul grado di perfezione raggiunto dall’arte elettronica: dalle performance video di Herman Kolgen al light design di Heijdens Simon o all’ASCII Art di Kuei Yu Ho e Patrice Mugnier, dagli originali e animati programmi di piccoli festival come il Pixelache di Helsinki all’etica hacker di illuminati teorici come Pekka Himanen.
Su un altro piano si colloca la cultura ufficiale mondiale dell’arte elettronica, l’universo in espansione della produzione di digital animation, visual effects e motion graphics, con artisti affermati come Joe Letteri, Scott Eaton, Juan Pablo Brockhaus, Rob Van den Bragt, Johnny Hardstaff, e tanti altri, operanti all’interno dell’industria cinematografica, dell’illustrazione e del design. Tuttavia, se è vero, come indicato da Mark Tribe e Reena Jena (New media art, Taschen Brown, 2007), che la New Media Art riflette su temi sociali e su un attivismo rivolto al decentramento, alla cooperazione e alla condivisione, tale condivisione, di canali (reali o virtuali), di linguaggi e di ascolti, suggerisce la possibilità di un codice creativo, dalla tecnologia matura e ad alta definizione, che appare, d’altro canto, libero dall’elitarismo dell’industria e dalle sue dinamiche di mercato.
01) Dalla Performance Art alla Interactive Art
La performance art nasce intorno agli anni Sessanta tra la Germania e gli Stati Uniti. Le sue origini sono riconducibili allo sperimentalismo americano del Black Mountain College, alla nascita dell’happening di Allan Kaprow e Gorge Maciunas, all’Intermedia di Dick Higgins, e, soprattutto, al movimento Fluxus.[1] Che ha rappresentato lo sviluppo di tematiche già presenti nella beat generation e nel Neodada, imperniate sul superamento dei ruoli di spettatore ed esecutore, sulla rivisitazione del fenomeno artistico come atto creativo libero, antidogmatico e sperimentale, attraverso la convergenza di stimoli e apporti molteplici, come l’indeterminazione cagiana, il minimalismo di La Monte Young, l’estetica Do It Yourself (DIY) di Nam June Paik, l’idea degli event score (istruzioni di poche righe per l’esecuzione di eventi finalizzati alla demistificazione della cultura e dell’arte accademica), il gadget provocatorio dei Fluxus boxes (scatole con oggettini assemblati a caso, biglietti, carte da gioco, etc.), il concetto di scultura sociale di Joseph Beuys, l’anelito di Dick Higgins all’abbattimento dei confini tra le arti e all’introduzione al loro interno di nuovi strumenti non convenzionali, tra i quali il computer.
Se negli anni Settanta e Ottanta la performance art ha avuto come protagonisti la ritualità gestuale e l’esplorazione corporea della body art, con artisti come Marina Abramović, Gina Pane, ORLAN, Laurie Anderson, Vito Acconci, è, di fatto, l’introduzione dell’informatica, della meccatronica (interazione di meccanica, elettronica e informatica) e dei sistemi d’automazione, parallelamente alla grande diffusione del computer intorno agli anni Novanta, a segnare il primo importante sviluppo dell’arte performativa; verso l’applicazione dei principi dell’interaction design (HCI) all’installazione, con il coinvolgimento motorio ed emozionale degli spettatori nell’attivazione dei processi interattivi, e verso l’odierna interactive art, in cui il segno sperimentale caratteristico degli eventi live, dai risultati parzialmente indeterminati e non interamente predicibili ritorna (nel senso fenomenologico e non più progettuale) come simulacro dell’imprevedibilità umana.
Così, anche se i modi e i contenuti si differenziano, la matrice storica e formale delle delle performance e degli happening conserva i propri caratteri fondamentali nelle installazioni interattive. Lo si nota nell’equilibrio tra sistema informatico e gestualità presente nelle performance storiche di Myron Krueger (Videoplace, 1974), di David Rockeby (Very Nervous System, 1986-1990) o di Sommerer e Mignonneau (Trans Plant, 1995). E soprattutto emerge nel preminente uso teatrale e scenografico dei sistemi interattivi e di elaborazione video, basati su applicazioni di video tracking, di motion capture o su piattaforme software per iperstrumenti. Si pensi alle stupefacenti coreografie di Klaus Obermaier, o della compagnia di danza Chunky Move diretta da Gideon Obarzanek.[2]
La matrice performativa originaria ritorna fondamentale anche quando ci si interroga, ad esempio, se l’interattività di un ipertesto possa essere assimilata ad una forma di arte interattiva. La risposta è affermativa solo se al centro dell’opera e dell’interesse del suo fruitore non si pone l’ipertesto e la sua struttura, ma l’azione di chi lo agisce.
Se il principio d’interattività rappresenta quindi un tratto in fondo comune a tutte le forme d’arte elettronica, l’arte interattiva resta focalizzata sul gesto e sulle relazioni dell’interagire: sull’interattore. In un rapporto che vede come unica alternativa la software art e le forme estetiche autogenerative o algoritmiche. Come scrive Geoff Cox:…”software art praxis can offer new critical form of arts practice by embodying contradictions in the interplay between code and action”. Contraddizioni derivanti dal processo di astrazione del software dall’esecutore, dalla radicale capacità del software di subentrare a un performer.
Questo principio resta valido anche nei più recenti sviluppi dell’arte interattiva (si veda ad esempio il programma di Decode: Digital Design Sensations, presso il Victoria and Albert Museum, 2009). Dove i ruoli tra lo spettatore e il sistema risultano invertiti, come ad esempio nelle sculture interattive. In Opto-Isolator di Golan Levin e Greg Baltus (Standard Robot Company, 2007), un occhio meccanico segue lo spettatore simulandone lo sguardo. Il sistema assume la funzione di performer e la sua individualità, o meglio pseudo alterità rispetto all’uomo che lo osserva, consiste nel simularne i gesti in modo ritardato o diffratto. Con la stessa chiave di lettura possono interpretarsi gli specchi di Daniel Rozin. La sua opera Circles Mirror è una scultura composta da 900 piccoli specchi circolari affiancati e controllati da motori, computer e video camere. Anche se i movimenti degli spettatori si riflettono sulla scultura, l’attesa e l’interesse sono rivolti, in realtà, al gesto del sistema che qui diviene il vero interattore.
In altri lavori i sensori non necessariamente prevedono la presenza umana e, quindi, l’esecutore può anche essere surrogato da altri elementi o fattori, come le variazioni climatiche o di luminosità, il livello di pressione su un pavimento, o le istruzioni di un sms, in tal caso si può assistere a vere forme di convoluzione tra software art e arte interattiva. Si vedano ad esempio le sculture cinetiche di Joachim Sauter.
Per quanto l’arte interattiva attraversi una felice fase di ufficializzazione, con le recentissime acquisizioni da parte di musei e gallerie, i festival restano il suo principale mezzo di diffusione e di sviluppo. Ne citiamo solo alcuni: il Prix Ars Electronica, il SIGGRAPH (Association of Computing Machinery’s Special Interest Group in Graphics), il DEAF (Dutch Electronic Arts Festival), il Transmediale di Berlino, il FILE (Electronic Language International Festival) di San Paolo in Brasile e il Festival biennale AV in Inghilterra.
02) Dalla Net.art alla Locative Media
Intorno alla metà degli anni Novanta, in corrispondenza del boom di internet e della diffusione di un ampio ventaglio di riflessioni sulle trasformazioni che la rete avrebbe portato, si sviluppano i lavori ancora oggi indicati come più rappresentativi della net.art (pronunciata net-dot-art). L’approccio low-tech e minimale appare uno dei suoi tratti peculiari, inscindibilmente legato al compromesso tra l’efficienza della rete e la necessità di veicolare informazioni in modo accessibile ad un target estremamente disomogeneo e diversificato per lingua, larghezza di banda, computer, browser, etc.. Il codice ASCII, assume, così, un ruolo centrale, e le sue potenzialità grafiche (la possibilità di rappresentare immagini attraverso la disposizione delle lettere dell’alfabeto) divengono complementari a quelle linguistiche. Si vedano ad esempio le opere di Vuk Ćosić, uno dei più noti pionieri della net.art, cofondatore di Nettime (http://www.nettime.org/), la storica mailing list e comunità online (1995) di cultura, politica, e social media che cura la divulgazione di testi illuminanti sulla cyber culture, come, ad esempio, il volume ReadMe! ASCII Culture and the Revenge of Knowledge (http://www.nettime.org/pub.html).
Ma al di là dei limiti tecnici della rete degli anni Novanta, l’approccio low-tech, la grafica scarna e poco curata, i colori saturi, le immagini sgranate, il collage, la stilizzazione in icona, non rappresentano un difetto, piuttosto esprimono la caratteristica concettuale originaria di questa arte, poco attenta agli aspetti decorativi e profondamente legata al testo e al codice linguistico come veicolo di contenuti attinenti principalmente al diritto alla comunicazione, alla libertà di espressione e alla scoperta, dopo il fallimento delle potenzialità comunicative della televisione, di un canale alternativo non soggetto al controllo governativo.
Secondo Josephine Bosma (net.artists and net.art, nettime.org) la prima generazione di net artisti si colloca ancor prima della diffusione della rete, ossia agli inizi degli anni Ottanta, con autori come Roy Ascott che agiscono su semplici sistemi di interconnettività (vedi il progetto La Plissure du Texte, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 1983), ponendosi come anello di congiunzione con la telematic art, la cui storia risale fino agli inizi del secolo, per poi abbracciare i network radio e infine le comunicazioni satellitari.
Insieme a Ćosić, altri autori noti del pionierismo della net.art sono il collettivo jodi.org (http://wwwwwwwww.jodi.org/), con i suoi lavori di reverse-engineering (modifica e ricompilazione) di videogames famosi (ad esempio Quake); Alexei Shulgin, tra i principali esponenti della cosiddetta cultura readme,[3] noto per performance come Real Cyberknowledge for Real People o per le esecuzioni MIDI di canzoni pop realizzate con PC trasformati in sintetizzatori vocali (processore Intel 386DX e Windows 3.1); Heath Bunting fondatore di irational.org, attivista, autore di Visitors Guide to London (presentato a Documenta X, Kassel, la prima grande manifestazione che ha ospitato opere di net art); Rachel Baker, altro componente di irational.org; Olia Lialina fondatrice della galleria, unica nel suo genere, Teleportacia; il sito äda ‘web, nato nel 1994, con il suo fondamentale tentativo, probabilmente fallito, di ufficializzazione della net art.[4]
Altro noto collettivo è il 0100101110101101.org, o più semplicemente 01.Org, autore nel 1998 della clonazione del sito del Vaticano, e autore del furto del sito Hell.com (galleria di net.art, avvolta dal mistero e accessibile solo tramite password), scaricato e ripubblicato all’interno del proprio spazio web. Clonazioni rivendicate come attività lecite e proprie di un cyberspazio open source e privo di privacy: ricordiamo, ad esempio, il loro progetto life_sharing, anagramma di file sharing, del 2000, consistente nella condivisione del proprio hard disk col mondo intero. Negli ultimi 2 anni 01.Org è approdato su Second Life con performance online.
®™ARK (www.rtmark.com) è un collettivo newyorchese attivista noto per le azioni di cybersquatting o plagiarismo (occupazione abusiva di nomi a dominio altrui attraverso la registrazione delle estensioni libere) e di boicottaggio delle corporation. Famoso il Barbie Liberation Front (Fronte di Liberazione della Barbie) contro la Mattel (trecento bambole parlanti manomesse nei chip vocalici, rispedite in fabbrica entro i termini previsti per la restituzione, e poi ricommercializzate, a insaputa dell’azienda, nella versione vocale modificata).
In Italia il BananaRAM, è stato il primo Festival di net.art (Ancona, 2002-2006) con artisti come epidemiC, Limiteazero, Maciej Wisnieswki (autore del browser Netomat), Carlo Zanni, Joey Krebs e molti altri.
L’elenco degli autori rappresentativi della net.art si estende a dismisura, inglobando lo stesso percorso che della net.art segna il superamento, o meglio l’evoluzione verso altre forme quali la connected art, la collaborative, la distributed performance, la mobile art.
Tuttavia, nell’accezione in cui la rete diviene funzionale all’attuazione di progetti strutturati su codici che da essa tendono a divenire estranei, o che da essa tendono a “distrarsi”, la vasta nomenclatura di generi che ne scaturisce identifica forme non più propriamente definibili net.art. La quale resta tale solo quando fermamente ancorata e focalizzata ad un rapporto autoreferenziale con la propria tecnologia di networking.
In tal senso, se è net art solo ciò che può esistere all’interno della rete, col termine internet art o web art si usa, viceversa, indicare un genere palesemente simile ma di più ampio orizzonte, caratterizzato da lavori che è possibile concepire anche per una fruizione al di fuori della rete, ovvero offline. Si pensi, ad esempio, all’opera File Room: The Archive of Censorship di Antoni Muntadas presentata al Cultural Center di Chicago nel 1994, o alle opere di web art commissioniate dalla DIA Art Foundation di New York,[5] o alla mostra Net Condition del 1999 presso il ZKM (Zentrum für Kunst und Medientechnologie) di Karlsruhe.
Questo passaggio fondamentale apre nuove prospettive e introduce l’importante sviluppo che la web art sembra seguire negli ultimi anni, quello di un traghettamento verso la locative art tramite le più recenti tecnologie di mobile media (telefoni cellulari, tablet, videocamere, ipod, walkman, laptop, PDA, etc.).
L’impatto delle tecnologie di networking sulle modalità di interazione tra individui e gruppi, tra la rete e il mondo fisico che ci circonda, è esplorato, ad esempio, nel saggio Beyond Locative Media di Marc Tuters e Kazys Varnelis il quale sottolinea la distanza assunta dalla locative art rispetto alla net art.
In .walk di Social Fiction l’esplorazione del territorio fisico diviene psicogeografica. Il contesto urbano si pone come un proseguimento fisico della rete e del software che la gestisce; è il segno di un’esemplificazione, tutt’altro che metaforica, del percorso con cui la net.art sfocia nella locative media art. È la rivendicazione del territorio contro la smaterializzazione della fruizione del mondo dal monitor di un computer. La fuga dalla rete, e dal suo meccanicismo, compiuta attraverso i suoi stessi mezzi. Una evasione virtuale che finisce col rinsaldare ulteriormente i legami dell’uomo con la sua nuova natura digitale, attraverso l’esportazione dei modi “screen style of life” al di fuori dello schermo.
Rapporto idiosincratico che riconduce in fondo alle origini stesse della net.art, caratterizzata da un tono profondamente critico nei confronti del proprio mezzo e da una irriverenza tra l’ironico e il catastrofico (vedi Re-code.com di Conglomco.org e The Carbon Defense League, opera convergente di locative media e software art, consistente in un generatore di codici a barre online, il cui sito è stato oscurato per motivi legali dopo solo 10 giorni dall’apertura).
Le tappe principali della net.art riassunte per anno, dal 1997 al 2011: http://www.technart.fr/NetArtHistory/
03) Hacker Art e attivismo
Erroneamente, un uso comune vede il termine hacker assimilato a quello di cracker, ovvero chi commette crimini informatici. In realtà la definizione abbraccia implicazioni profondamente e radicalmente differenti. Addirittura estensibili al di fuori di un contesto puramente informatico. Secondo Pekka Himanen, il termine hacker definisce chiunque svolga un’attività creativamente e con passione, senza limiti di tempo e senza risparmio di capacità intellettuali.[6]
Il concetto di rilettura, insieme a quelli di modifica, trasformazione, esplorazione, adattamento, riciclo, è centrale nella hacker art. Una rilettura personale di una particolare situazione o di un dispositivo, sia esso di natura hardware o software, che tende a riformularne il senso, scoprendone e articolandone potenzialità ancora inespresse.
Risultano evidenti le implicazioni etiche insite in tale prospettiva in cui il concetto di condivisione è complementare a quello di rilettura. Si risale così alle origini stesse della cultura hacker, nata alla fine degli anni Cinquanta presso i laboratori del MIT e codificatasi intorno a una serie di regole non scritte ma condivise da una comunità di pionieri della rivoluzione digitale dei quali Richard Matthew Stallman, fondatore del progetto GNU (1983), e della free software foundation (1985), teorizzatore del concetto di copyleft e della libertà di condivisione dei codici sorgente, resta la principale figura di riferimento.
Regole basate su un concetto di informazione e conoscenza come proprietà condivise che contemplano l’accesso illimitato alle risorse di un computer, la distribuzione gratuita delle informazioni, la sfiducia verso la gestione autoritaria e totalitaria del sapere, la decentralizzazione, l’uso creativo del computer come strumento per il miglioramento del tenore di vita, la creatività e la libera espressione individuale. Una filosofia che è stata messa in relazione con il concetto africano di ubuntu (da cui il nome della nota versione di GNU/Linux), che indica, appunto, una visione della società senza divisioni e gerarchie di ruoli.
Le origini dell’arte hacker si sono sviluppate parallelamente a quelle di altre forme coeve come la video arte o l’installazione d’arte, con autori come Wolf Vostell, Nam June Paik, o Kurt Schwitters, il Movimento Neodada, gli autori della scena underground italiana, da Gianluca Lerici Professor Bad Trip all’Arte Avanzata (o arte con gli avanzi), del gruppo KORF, con la commistione con le forme punk e post punk legate in Italia al pionierismo dell’arte telematica: i gruppi Decoder, Strano Network, Netstrike, la rete di BBS Cybernet “Hacker Art BBS”[7] del 1990, ideata e autogestita da Tommaso Tozzi.[8] Sviluppi che in ambito internazionale abbracciano, in un modo o nell’altro, tutte le manifestazioni artistiche delle controculture di sovversione. Il fake hacking, il deturnamento pubblicitario da parte di gruppi di culture jamming[9], come Bilboard Liberation Front o Adbuster. Il digital hijacking. Il citato cybersquatting. I contatti diretti con il concettualismo della net.art, ad es. con il progetto p2p Mission Eternity di Etoy Corporation.
Manifestazioni tra loro parallele per le implicazioni attiviste di dissenso, ribellione e rifiuto di una visione consumista della tecnologia. Capaci di sfociare in forme anarchiche di matrice gothic e rave, ma anche di assumere connotati totalmente diversi per lo spirito costruttivo di riprogrammazione e di riappropriazione della tecnologia, come strumenti e chiave di volta per il riscatto della propria condizione sociale e la riscrittura dei modelli e manufatti generici e spersonalizzanti imposti dalle logiche oligarchiche del mercato.
La frase think globally, act locally esprime questa volontà attivista e sostenibile, o meglio “hacktista”, di modificare il mondo attraverso l’azione personale, intrapresa all’interno di gruppi o collettivi indipendenti e in particolare – così nella sua accezione mediattivista – tramite l’uso dei nuovi media e all’interno del modello rizomatico della rete descritto da Deleuze e Guattari, basato su relazioni diffuse non interdipendenti e prive di centri gerarchici.
È la pratica, quest’ultima, dei tactical media, introdotta nella metà degli anni Novanta in Europa e Stati Uniti da teorici come David Garcia, Geert Lovink, Joanne Richardson, e i Critical Art Ensemble, che privilegiano l’intervento temporaneo e fulmineo, come nelle TAZ – dal titolo del volume The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism pubblicato per Autonomedia nel 1991 dallo scrittore anarchico Hakim Bey – a quello rivolto alla creazione di strumenti alternativi stabili. Una mistura di arte e attivismo che abbraccia l’azione di gruppi ben noti come RTMark, The Yes Men, Electronic Disturbance Theater, Carbon Defense League, Institute for Applied Autonomy, 0100101110101101.ORG, Bureau of Inverse Technology, Ubermorgen, Irational, subRosa, I/O/D.
Come già affermato, la conoscenza resta al centro dell’interesse hacker; attraverso di essa è possibile attuare la trasformazione di un prodotto o di uno schema da generico a specifico. Su misura per contesti in cui esigenze condivise si soddisfano attraverso il principio del fai da te, il do it yourself (DIY), la nota sigla coniata negli anni Sessanta in occasione della nascita del movimento dell’home improvement, basato sulla riscoperta di una cultura materiale (di cui il filosofo della controcultura Alan Watts fornisce un riferimento chiaro) che si evolverà dall’acquisizione delle competenze pratiche di mestieri non propri verso una conoscenza sempre più teorica e approfondita, progressivamente e in rapporto alla diffusione crescente degli strumenti di divulgazione tecnica e scientifica.[10]
Di questo processo, la cultura hacker contemporanea, con la propria formazione fondamentalmente non istituzionalizzata, incarna l’anello finale, in cui la comprensione profonda di un linguaggio consente la manipolazione strutturale e completa di un codice. Conoscenza raggiunta con pervicacia, con sforzi ostinati e con una caparbietà che può protrarsi indefinitamente e senza sosta.
Da qui nascono le implicazioni vernacolari della cultura hacker, del cui termine ci si può fregiare solo se se ne posseggono gli strumenti e condividono i modi operativi, e le croci.
I termini lemer, script kiddie o warez d00dz, coniati in senso dispregiativo, indicano la natura ortodossa della cultura hacker e il conseguente ripudio di forme non riconosciute in quanto inferiori o di tipo emulativo. Noob, luser e utonti (utenti tonti) sono alcuni dei termini riservati ai non addetti ai lavori, i quali, da niubbi, sono considerati, inoltre, potenzialmente dannosi e, quindi, assoggettabili a LART – Luser Attitude Readjustment Tool (Strumento di Correzione dell’Atteggiamento del luser), o a “clue-by-four”, il blocco dell’accesso alle risorse informatiche.[11]
La portata linguistica underground della cultura hacker si coglie anche nell’uso del codice leet (o anche l33t, 31337 o 1337), una forma di inglese ricodificato attraverso la sostituzione dei caratteri sulla base della loro somiglianza grafica. O, ancora più direttamente, emerge dalla lettura dei Jargon Files (http://jhanc.altervista.org/jargon/Intro.html), introdotti nel 1974 da Raphael Finkel: un dizionario vasto e completo che tenta di riassumere il gergo e le abitudini hacker. Pur nelle varie e contaminate accezioni che il termine ha assunto negli anni (dal “white hat hacker” o “sneaker”, che testa i sistemi di sicurezza, al phreaking hacker, chi pratica l’hacking phone, H/P, all’hacker di distributori automatici e aggeggi simili).[12]
L’arte hacker si innesta sullo stesso atteggiamento di fondo su cui la prospettiva del pensiero hacker si basa: la creatività. Si innesta dunque su tutti i processi di questo percorso traendone spunto per la realizzazione di opere generate su principi di assoluta praticità e concretezza, da un canto, e su una inequivocabile speculazione concettuale, dall’altro, attraverso l’avversione alle logiche del mercato d’arte.[13] L’azione di detournamento (trasformazione del senso) nell’arte hacker è un tratto costante: come nel caso del plagiarismo digitale e analogico, ad esempio quello del citato Adbusters. Sulla sua matrice ancora una volta proiettano la loro ombra Marcel Duchamp, con i suoi ready mades, o gli happening di Joseph Beuys. E Roland Barthes:“La miglior sovversione non consiste forse nel distorcere i codici anziché nel distruggerli?”
Una sovversione la cui natura elettronica è preminente e si rivolge indifferentemente al prodotto di grido come a quello obsoleto, trash, ormai in disuso e oggetto di riciclaggio (i cosiddetti RAEE, o in inglese WEEE, Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Un percorso in cui tecnologie passate e attuali si fondono; in modo simile a quanto avviene nella suggestiva letteratura steampunk, dove la tecnologia del vapore si innesta su chip e microprocessori.
/Device Art
La device art abbraccia una produzione d’arte molto diffusa e commercializzata in Giappone, anche sotto forma di gadget. La cultura tradizionale giapponese, viene da molti indicata come la radice di questa forma espressiva.
Nella device art si ricerca la convergenza di arte e design. Lo scopo, nonché l’aspetto fondamentale e originale della disciplina, risulterebbe quello di un superamento dei confini tra commerciale e artistico. La cultura popolare e la tecnologia non intesa come finalizzata al prodotto d’arte ma arte essa stessa.
Da un punto di vista istituzionale essa si incarna nel progetto “Expressive Science and Technology for Device Art” diretto da Hiroo Iwata presso l’University di Tsukuba, o nel progetto “Device Art” finanziato dal Core Research for Evolutional Science and Technology (CREST) della Japan Science and Technology Agency. (http://intron.kz.tsukuba.ac.jp/vrlab_web/index.php)
La Device art è la progettazione di opere che esprimono, dunque, l’essenza delle tecnologie meccaniche e digitali. Significative le realizzazioni tra design e entertainment di artisti noti come Toshio Iwai, Nobumichi Tosa (Maywa Denki), e Kazuhiko Hachiya. Vedi, ad esempio, il sequencer audiovisivo Tenori-on prodotto dalla Yamaha.
Dai tamagogi ai Pokémon, alle creature virtuali dei Kobito: Virtual Brownies. L’uso della scienza e della tecnologia per scopi di intrattenimento più che per scopi pratici risale, secondo le intenzioni teoriche della device art, al lungo periodo di pace attraversato dal Giappone fino alla metà del Diciottesimo secolo, con il conseguente sviluppo di una tecnologia non rivolta a scopi bellici o pratici.
Giochi, giocattoli e gadget… e teatro tradizionale giapponese. La cultura su cui ha fatto la sua fortuna la Yoshimoto Kogyo Inc., the king of Japan’s entertainment, sorta nel 1912: una parte di tecnologia e due di Raguko.
04) Software Art. Dall’astrazione alla macchina
1/Software culture
Matthew Fuller, noto con Graham Harwood per aver ideato il browser sperimentale Web Stalker, nell’edizione del 2003 del festival Transmediale di Berlino, ‘Beyond the Blip’, individuava tre categorie culturali nel quadro della produzione di software art: la critical software, la demolizione delle funzioni comuni, normalizzate, classicamente intrinseche al software; la social software, la rete dei network, le community e le relazioni tra programmatori e utenti; e la speculative software, la rilettura del software e delle sue potenzialità trasversali: ‘reinvention of software by its own means… as mutant epistemology’. Ancora nel 2004 il jury statement del festival esprimeva il fondamentale valore sociale, culturale, critico e speculativo del software: ‘Software is not to be understood as a functional tool… but as a generative means for the creation of machinic and social processes’.
Entrambe le definizioni, a distanza di quasi un decennio, forniscono una lettura di carattere sociale e culturale ancora attuale, riconoscendo alla cosiddetta software culture una funzione estetica fondamentale per la software art,[14] condivisa da tutta una schiera di esperti e programmatori di media network, come Howard Rheingold, Andreas Broeckmann, autore di Software Art Aesthetics (2006),[15] il collettivo inglese I/O/D, il gruppo Mongrel (Richard-Pierre-Davis, Mervin Jarman, Graham Harwood e Matsuko Yokokoji), i Netochka Nezvanova, e molti altri, che sottolineano come software e dispositivi hardware rappresentino più propriamente pratiche sociali definite che strumenti neutri di calcolo.
Pratiche individuabili, ad esempio, nella rigida configurazione dei grossi network come Slashdot, Flickr, Del.icio.us, Facebook, etc., dove i comportamenti sociali sono disciplinati tramite un’interazione non spontanea ma declinata secondo modelli prestabiliti, solo apparentemente aperti. O nella configurazione dei database relazionali, con la loro capacità di creare nessi, informazione e fenomeni di correlazione programmabili fin nei più piccoli dettagli. O nella struttura del web semantico e nella programmazione dei linguaggi di markup che possono orientare in modo predefinito i risultati di una ricerca e creare percorsi guidati in una navigazione apparentemente libera.
Dagli aspetti socio-culturali emerge, dunque, uno dei tratti più interessanti della software art, afferente alla sua natura di opera generativa, e alle caratteristiche più pragmatiche del concetto stesso di generatività. Ovvero la capacità di generazione di senso e di risultati sulla base di una preventiva programmazione.
Pur non volendo sfatare il fascino di un’arte misteriosa dai risultati non predicibili, l’arte generativa, sui modelli individuati dalla software culture, simula, dunque, l’evoluzione di un processo basato su regole e scopi precisi e in fondo evidenti, la cui natura resta prestabilita fin nei dettagli. L’arte generativa agisce in modo critico sui propri meccanismi pragmatici, svuotandoli di ogni implicazione utilitaristica e appiattendoli su un unico livello, in modo epifanico e rivelatorio: opera = processo operativo = codice.
Le definizioni complementari di code art, generative art o algorithmic art esprimono solo l’aspetto esteriore di questa equazione, il suo meccanismo semiotico. Il congegno: ciò che deve essere ricondotto in superficie per esserne dimostrata l’esistenza.
Una mise en abyme di cui l’aspetto concettuale è il vero contenuto, invisibile e tuttavia estraibile dalla struttura di senso che esso genera.
Nella produzione artistica, il software riceve dunque una rilettura aperta alla considerazione ed evidenziazione della sua natura profonda di medium – come processo, non come mezzo o strumento, e non come oggetto. Posizioni ribaltate rispetto a quelle del software commerciale in cui il processo (poiesis) resta invece nascosto e i risultati (eistesis) devono apparire come lo scopo autonomo e imparziale di un calcolo esclusivamente funzionale a qualcosa d’altro posto al di fuori della macchina.
2/Formalismo software
Il cosiddetto formalismo software fornisce una visione in parte antitetica a quella del culturalismo fin qui descritto, come evidenziato da Florian Cramer[16]. Una visione di tipo strutturale basata sull’autonomia poetica del codice e sulle sue relazioni interne.
In realtà, come chiaramente espresso sul sito runme.org, il formalismo esprime più un tentativo di integrazione di prospettive che di contrapposizione al culturalismo: ‘Software art is an intersection of two almost non-overlapping realms: software and art. It has a different meaning and aura in each. Software art gets its lifeblood and its techniques from living software culture and represents approaches and strategies similar to those used in the art world. Software culture lives on the Internet and is often presented through special sites called software repositories. Art is traditionally presented in festivals and exhibitions. Software art on the one hand brings software culture into the art field, but on the other hand it extends art beyond institutions.’
Condivide questa posizione la schiera di artisti-programmatori che meglio riesce oggi a rappresentare la software art e il suo raggiunto equilibrio tra formalismo tecnico e criticismo culturale. Karsten Schmidt, co-sviluppatore di Processing, Adrian Ward, autore di Auto-Illustrator (un software autogenerativo di grafica e illustrazione vettoriale, basato su Adobe Illustrator, ma in grado di reagire ai comandi con risposte autonome e bizzarre), o Alex McLean, coautore del citato sito runme.org e autore di Forkbomb.pl (una serie di istruzioni in Perl che progressivamente mandano in tilt il sistema operativo, http://www.runme.org/project/+forkbomb/), il teorico Geoff Cox, autore del recente e fondamentale Antithesis: The dialectics of software art, 2010,[17] la comunità che ruota intorno alle mailing list eu-gene e Nettime, il Sarai Centre di New Dehli, il sito web http://www.generative.net, i gruppi ‘DorkBot’ (people doing strange things with electricity), per citarne solo pochissimi.
3/Software vs Firmware
La storia ufficiale della software art probabilmente nasce nel 1970, con l’esposizione dal titolo Software al Jewish Museum di New York curata da Jack Burnham.[18] È una storia che si identifica in buona parte con quella della cosiddetta computer art, ripercorribile in mostre come Algorithmic Revolution – On the History of Interactive Art,[19] in ampie antologie come Sonic Acts: The Anthology of Computer Art,[20] o anche nelle fondamentali raccolte critiche del 2004 e 2005 del festival Read_Me.[21]
Contributi importanti riconducono l’approccio storico sia al formalismo generativo di Max Bense[22] (1960) che a tutta una serie di derivazioni ancor più remote. Come il dibattito sulla contrapposizione di Realismo e Formalismo tra Lukacs e Brecht (1930), ripreso nell’ambito della discussione sulla funzione estetica o pragmatica delle GUI (graphical user interfaces).[23] O come i legami con l’arte concettuale di Kuhlmann, La Monte Young, Sol Le Witt, o i legami con la scrittura come forma d’arte combinatoria, asemantica e autoreferenziale.
Un quadro storico ovviamente riduttivo ma in cui occorre considerare almeno un terzo approccio: l’arte generativa introdotta da artisti quali Dedsmond Paul Henry (autore di macchine da disegno realizzate con i computer analogici dei mirini usati negli aerei da bombardamento della Seconda Guerra Mondiale). In un percorso dove il software va di pari passo con le interfacce che esso gestisce e di cui la più recente generazione di artisti, da un canto, incrementa il livello di complessità, come nel caso dei bracci meccanici di Cod.Act di Michel e André Décosterd, d’altro canto abbina la semplicità minimalista di un approccio low-tech ad una marcata originalità creativa, come ad esempio in Tristan Perich (si veda il progetto Machine Drawings, a metà tra le citate macchine di D. P. Henry e la wall art; o 1-Bit Symphony, un circuito elettronico con microcontrollore assemblato dentro il jewel case di un CD dotato di presa jack).
Le relazioni, più o meno imprescindibili, tra software e hardware forniscono una riflessione importante relativa alla specializzazione o genericità dell’infrastruttura di calcolo su cui avviene l’esecuzione di un’opera di software art. Soprattutto quando essa, spaziando dall’uso di sensori a dispositivi mobili o piattaforme portatili, può ‘girare’ all’interno di un firmware specifico.
Per quanto si possa considerare secondario e puramente corollario questo aspetto, esso diviene importante se riesce a spostare l’attenzione dal concetto linguistico di programmazione a quello operativo di meccanica, proprio tramite la scrittura ‘congelata’ di istruzioni all’interno di una memoria, sia essa eeprom, ram, o flash. In questa direzione ‘software art’ resterebbe, propriamente, solo quella sviluppata su sistemi generici non specializzati, un comune computer, assumendo tutto il resto una connotazione funzionale troppo specialistica per conservare alla software art il carattere di pura astrazione concettuale finora delineato.
Da questa ultima considerazione scaturisce indirettamente la tematica dei progetti open source, free e collaborative, in riferimento ai diritti d’autore sul programma o sull’opera programmata e alla sua assimilabilità ad un manufatto materiale. E la tematica della reale o fittizia individualità, o originalità, di progetti o opere prodotti con software condivisi tra milioni di utenti.
Tematiche affrontate nelle definizioni del F/OSS (Free and open source software), e discusse da diversi gruppi, tra i quali la Free Software Foundation, il MIT Media Lab, il V2_Lab, il Future Lab dell’Ars Electronica, etc..
Tematiche connesse alla rivoluzione – auspicabile/utopica – delle modalità di realizzazione e fruizione di un’opera d’arte aperta e collettiva, condivisa ma contemporaneamente sottratta agli interessi delle corporazioni e ai ritmi di produzione dell’industria.
Aggiungeremmo, provocatoriamente, connesse al superamento, quando possibile, di una software art abbinata all’uso di costose piattaforme (ad es. un Mac book pro da 2000 euro) a favore di una firmware art economicissima (un microcontrollore da 20 euro). O, ancora, quando possibile, ad una visione più ecologica del software, anche in direzione di un suo superamento (si pensi ad esempio all’uso di Max/MSP, acquistabile al prezzo di 400 euro, per una modulazione con 2 oscillatori realizzabile con chip da pochi centesimi): si pensi all’approccio all’elettronica di Nicolas Collins e del suo intramontabile manuale Hardware Hacking.
05) Game art
La game art si basa su una considerazione extraludica del videogioco. Secondo Henry Jenkins, sostenitore e teorico della popular culture, esiste una contrapposizione tra il videogioco come forma d’arte popolare – parliamo di Shigeru Miyamoto, autore di Super Mario Bros – e la Game Art, con la quale invece si identifica una forma di produzione d’arte d’elite, riservata e altezzosa.[24]
A sua volta, questa contrapposizione riceve una estremizzazione nella dicotomia game art vs art game. Mentre per game art si intende l’arte di creare videogiochi, gli art games sono videogiochi realizzati con scopi esplicitamente artistici, destinati quindi al pubblico ancor più elitario dell’arte contemporanea.
Matteo Bittanti, tra i massimi studiosi in Italia della game art, indica alcuni esempi di questo genere: “BlackLash” (1998) di Mongrel e Richard Pierre-Davis, “Triggerhappy” (1998) di Thomson & Craighead, “The Intruder” (1999) di Natalie Bookchin, “Pac Mondrian” (2002) di Prize Budget for Boys, “September 12” (2001) di Gonzalo Frasca, “Average Shoveler” (2004) di Carlo Zanni. Ai quali si aggiungono videogiochi più commerciali come IcO di Fumito Ueda, Electroplankton di Toshio Iwaii, Rez di Tetsuya Mizuguchi, Okami di clover Studio.
Nella game art il concetto di modifica è fondamentale: i termini art modding, game modding o patch art indicano la pratica di modificare un videogioco creandone una nuova versione da ridistribuire. Una pratica che lega le origini della game art a quelle della stessa hacker art: ricordiamo Spacewar!, il primo video game interattivo per computer PDP-1, realizzato tra il 1961 e il 62 dagli hacker del MIT, in particolare da Steve “Slug” Russell.
Il concetto di hackeraggio ritorna anche nella pratica diffusa delle modifiche apportate al videogioco per la realizzazione dei machinima, film di animazione realizzati registrando e montando in modo creativo le scene di un videogioco.
Grand Theft Auto IV, ad esempio, contiene un apposito movie-editor che consente ai giocatori di registrare e montare intere scene del gioco.
Analogamente i sonichima sono brani musicali realizzati partendo da suoni registrati da videogiochi e quindi da vere e proprie performance musicali di gioco. In questo ambito, si delinea un contesto prossimo a quello della produzione audio 8-bit, low-tech, definita anche home-based media art, realizzata con tecnologie obsolete, e ripercorsa, ad esempio, dalla mostra Playlist,[25] curata nel 2009 da Domenico Quaranta.
Il cosiddetto retrogaming include anche la produzione cosiddetta chiptune o chip music, basata sull’uso di suoni sintetizzati attraverso l’uso dei chip audio tratti da giochi, o tramite console storiche come l’Atari 2600 (1977), l’Intellivision della Mattel (1980), o anche l’Atari 800, la ZX Spectrum, l’Amstrad CPC.
Storicamente, in questo contesto la prima tappa fondamentale è stata segnata dal SID (Sound Interface Device) del Commodore 64 (1982), prodotto dalla statunitense MOS Technology. Un grande passo avanti nella chip music è poi stato compiuto, a distanza di pochi anni, dal Commodore Amiga (1985), che possedeva un sintetizzatore basato su un campionatore, con i suoi tracker chiptunes e i suoi caratteristici arpeggi e loop. Successivamente appariranno i primi software come il chiptune tracker “LSDJ” per il Game Boy di Nintendo (1989).
Tra gli anni Ottanta e Novanta la game art è stata caratterizzata dall’affermazione della demoscene, con l’avvento dei computer a 16 bit e delle console Amiga e Atari ST (1985). È l’epoca in cui ha avuto la sua massima diffusione la complessa sottocultura dei demo-coder: gli autori delle ‘intro’ audiovisive che venivano inserite come firma all’interno del programma piratato. Programmate in assembly, cercando di risparmiare ogni byte di RAM possibile, le “intro” progressivamente si sono trasformate in “demo”, svincolandosi dalla dipendenza da un programma crackato e assumendo un valore artistico autonomo.
Oggi la demoscene è diventata un fenomeno di retrocomputing coltivato da una ristretta nicchia di appassionati. Qualche esempio magistrale sul sito fr-08: .the .product (http://www.theproduct.de/).
Alternativa e complementare l’estetica degli arcade games, i video giochi a gettone installati nei locali pubblici.
06) Sound Art. Per una semiotica della multimedialità
1/L’ascolto come pratica multimodale. La trattazione fin qui svolta sostiene il principio che un genere multimediale si basa sulla centralità di una particolare tecnologia nel pensiero e negli scopi di un artista, e dunque sull’uso complementare degli altri media che ne completano la struttura. Difficilmente è possibile, nonostante gli intenti programmatici più disparati, individuare opere multimediali nel senso paritario del termine. Se dunque il suono, con le sue infinite sfumature e forme, spesso risulta presente nei generi già esposti, ciò non implica automaticamente la possibilità di indicare tali forme come sound art.[26]
L’interpretazione multimodale, in questa prospettiva allargata, fornirebbe una visione più corretta, dal momento che la divisione degli elementi costitutivi di un’opera, o di un processo estetico, avviene non sulla base della loro equiparazione ma sulla base di una fruizione distribuita, segmentata, o moddata, con modalità diverse, dei singoli elementi. Se ciascun segmento può divenire centrale in un’opera quando una modalità di fruizione particolare ‘altera’ la visione d’insieme attraverso l’osservazione e la scomposizione dei componenti, nasce la possibilità di intendere sempre l’uso degli elementi sonori come sound art.
Probabilmente, una qualche struttura multimodale, che pone lo spettatore in una posizione di libertà rispetto ad una fruizione dell’opera come unicum, risulta insita in ogni progetto multimediale. È il caso già visto dei sonichima della game art, dove un videogame viene fruito solo da un punto di vista musicale. Ma tale modifica delle modalità di osservazione non intacca la natura complessa di un progetto ideato e focalizzato su aspetti e tecnologie magari totalmente differenti da quella su cui si desidera sintonizzarsi.
La sound art, coerentemente, identifica opere in cui risulta evidente la volontà dell’autore di concentrare l’attenzione di uno spettatore sull’aspetto musicale, o meglio acustico, seppur posto tra un complesso di elementi costruttivi. A prescindere dalla personale libertà di fruire in modo idiomatico degli elementi sonori di un qualsiasi altro genere.
2/L’oggetto sonoro tra focalizzazione e sfocatura. Da un punto di vista estetico gli opposti si identificano sulla base di semplici processi di inversione all’interno di classi condivise, come nelle categorie semantiche di A. J. Greimas.[27] La dissonanza, ovvero, si basa sul principio, invertito, della consonanza, come l’estetica del bello inverte l’estetica del brutto. La presenza di elementi estremi contrapposti crea una regione dinamica bipolare all’interno della cui tensione l’estetica tradizionale ha analizzato i più grandi capolavori del passato.
Nella produzione multimediale questa regione dinamica si trasferisce su un altro piano: quello in cui gli estremi sono dati dalla presenza e dall’assenza di un elemento mediale all’interno della struttura complessiva dell’opera.
Come evidenziato nella semiotica interpretativa di Umberto Eco, ogni cosa possiede un valore interpretabile e non ontologico. Tuttavia, non necessariamente tutto ciò che fa parte di un sistema (l’insieme degli ‘oggetti dinamici’ di Charles S. Peirce) deve essere necessariamente notato (divenire ‘oggetto immediato’). La ‘lettura’ di un’opera d’arte si basa proprio su questo tipo di rapporto in cui si sta al gioco e in cui per fruire dell’opera va posta l’attenzione su qualcosa di particolare, su ciò che l’artista o il contesto espositivo vogliono e riescono a trasmettere e non sul sistema nel suo enorme complesso di significati referenziali, storici e materiali. La volontà di sintonizzarsi su un’opera implica la selezione di una frequenza su cui l’opera trasmette. In tal senso decidiamo qui, arbitrariamente, di definire ‘extrastrutturale’ tutto ciò che esiste ma non viene colto, o interpretato, come parte integrante del processo semiotico, ciò che non appartiene alla frequenza su cui vogliamo sintonizzarci. L’arte, come ogni processo di comunicazione, gioca su questo principio di mimesi basato sulla capacità di distrarre o concentrare lo spettatore orientandone le abduzioni e i processi cognitivi attraverso l’uso di modelli stilistici già ‘naturalizzati’, nell’accezione barthesiana,[28] o predisposti ad hoc.
Se, come dicevamo, a livello estetico gli opposti si collocano all’interno della stessa classe, a livello multimediale, tale classe vede come opposti il grado extrastrutturale di un elemento mediale (la sua assenza) e il suo grado di segno attivo (la sua presenza).
Da un canto questa nuova classe può essere relativa alla semplice presenza o assenza di percezione di un medium, ad esempio il suono; d’altro canto, a livello meno macroscopico, può riferirsi alla presenza o assenza di proprietà parametriche dello stesso medium, o, anche, di proprietà di proprietà (se, ad esempio, il suono è un medium, l’interattività può essere una sua proprietà).
L’assenza di interazione, dunque, quando non percepita come tale, ovvero non relazionata al suo opposto interattivo, non produce tensione, così come la bellezza e la bruttezza restano parametri insignificanti nella loro individualità. Se tale tensione si presenta, ciò avviene per un processo di induzione, ovvero per l’oscillazione dell’elemento tra il piano extrastrutturale e quello aggettivante, o viceversa, per la comparsa di un elemento mediale differente.
Potremmo definire ‘elementi mediali’ quelli basati su tecnologie specifiche di trasduzione (audio, video, cinetica, etc.) e potremmo definire ‘elementi metamediali’ le classi annidate che aggiungono proprietà e argomenti specifici (interazione, morphing, etc.) al codice digitale di ciascun elemento mediale.
Avviamoci alla conclusione di questa premessa per comprendere come il suono all’interno del discorso multimediale assuma spesso la funzione di oggetto in movimento (metaforicamente) tra il piano segnico e quello extrastrutturale. Sia a livello mediale che metamediale. In un processo in cui l’elemento più importante è quello che rende possibile l’oscillazione dell’oggetto mediale tra un piano e l’altro, rendendo così possibile la percezione delle relazioni multimediali. Vediamo qualche esempio.
In Terry Fox (1943), maestro della body art, si osserva la trasformazione del senso extrastrutturale dei materiali impiegati, in cui il medium è il corpo umano stesso. Stimmfeld eseguito da Ralf Peters è un chiaro esempio:[29] un sospiro iniziale, con le sue semplici implicazioni acustiche, rappresenta inizialmente il piano extrastrutturale; potrebbe passare inosservato, ma la sua ripetizione incessante e le continue modulazioni fonetiche ne fanno perdere presto il senso fisico originario per conferirgli un valore semantico di tipo psicologico. Le proprietà emozionali della voce, prima assenti, vengono focalizzate tramite quelle fonetiche.
In questo passaggio di piano, dall’extrastrutturale al tangibile, si colloca il significato della composizione, imperniato sul rapporto tra suono e corpo umano, e basato sul superamento della natura acustica dalla voce per il disvelamento delle sue denotazioni espressive. Un procedimento diametralmente opposto a quello descritto dal concretismo schaefferiano, in cui, si concettualizza invece la possibilità di sottrarre al suono le sue relazioni esterne.
Citiamo ancora qualche esempio. Rolf Julius: una performance del 1988 presso la celebre Mattress Factory di Pittsburgh. Il suono emesso da un altoparlante viene modificato dal movimento del compositore tra i pannelli solari che alimentano il sistema; un gesto che altrimenti non avrebbe attratto alcuna attenzione diviene parte integrante del processo estetico, rendendo il suono strumentale alla focalizzazione dell’elemento performativo. Electrical Walks di Christina Kubisch: un progetto basato su cuffie modificate in antenne per il rilevamento di campi magnetici trasdotti in frequenze udibili; trasforma il gesto del camminare in esplorazione acustica (il suono si sposta su un piano extrastrutturale). In Charlemagne Palestine (Chiesa di San Francesco, Losanna, 2008) si può osservare la ridefinizione semantica in chiave happening dell’organo a canne di una chiesa, attraverso l’innesto della fortissima connotazione culturale dell’artista e l’uso di sonorità statiche e minimali.
Anche in contesti non propriamente di sound art il principio resta lo stesso. In A Vertical Lightfield (Orchard Central, Singapore) di Hans Peter Kuhn osserviamo un procedimento analogo: la suggestione lampante di tubi al neon animati in modo da simulare delle forme viventi, simili a larve, diviene puramente extrastrutturale nella definizione asettica del titolo ‘campo di luce verticale’. The wunderblock di Arnold Dreyblatt sfrutta il procedimento di scrittura e cancellazione di un testo su un palmare per richiamare il concetto freudiano di instabilità della memoria. Etc..
Oltre al principio appena descritto della focalizzazione o sfocatura di un elemento mediale, se ne possono identificare infiniti altri, posti come strumenti di articolazione tra i piani sopra individuati. Ad esempio il principio di simmetria/asimmetria.
In Matinee, recente esposizione di video arte (febbraio 2011), curata da Patrick Brennan and Lauren van Haaften-Schick presso la St. Cecilia Gallery di Brooklyn, il contesto architettonico dove avvengono le proiezioni viene posto al centro della mostra attraverso l’uso di elementi video e audio simmetrici a quelli architettonici; come ad esempio nel video di David Dunn (1953) Gazing System. In cui i tubi di gas raffigurati nel video vengono proiettati sulle tubature dell’edificio.
In White Summerpiece (about 7 inches high) di Rolf Julius l’installazione insolita di altoparlanti in ambienti naturali, come il corso di un fiume, rivolge l’attenzione al contesto relegando gli altoparlanti ad una funzione extrastrutturale.
Esempi analoghi, anche se non di sound art, sono le opere basate sull’asimmetria di un oggetto (spesso un ready-made) e del suo contesto, come in Jannis Kounellis, o sulla asimmetria tra forma e materiale, come nelle sculture seriali di Joana Vasconcelos (si pensi al suo lampadario assemblato con migliaia di tampax, o alle gigantesche scarpe con tacco a spillo realizzate con pentole luccicanti).
3/Sovrapposizione di stili. Ogni elemento mediale di un’opera possiede dei tratti stilistici propri che possono concordare o essere incoerenti con i tratti stilistici dei media compresenti, secondo lo stesso principio di simmetria/asimmetria sopra descritto. Per definizione stilistica intendiamo qui soprattutto la contestualizzazione socio culturale del materiale impiegato e le sue implicazioni linguistiche, metaforiche, o allegoriche.
Così il conflitto o la coesione tra i richiami stilistici può offuscare o rinforzare l’unitarietà di un’opera. Essere voluto o prodursi in modo indesiderato.
L’estetismo kitsch, ad esempio, si caratterizza proprio per l’uso eccessivo di relazioni allegoriche, le quali, pur possedendo nella loro individualità precise connotazioni, mirano ad apparire extrastrutturali, ovvero prive di richiami esterni espliciti.[30]
La centralità del suono nella sound art, con il suono inteso come fulcro dell’opera, tende a trasferire il significato dell’opera allo stile musicale che in essa viene presentato. Se la sound art si identifica alle volte con le installazioni sonore e con la musica contemporanea di matrice colta, ciò non deve distrarre dall’esistenza corposa al suo interno di stili assolutamente diversi e variegati, dall’IDM, all’electronic dance music, dal Glitch all’Hip Hop, etc.
Si pensi, ad esempio, alla forte caratterizzazione glitch del duo Modeselektor / Pfadfinderei e all’installazione audiovisiva Earth, Design d’aujourd’ui, realizzata presso il Centre Pompidou di Parigi nel 2005. L’opera in sé è dozzinale ma il senso di commistione di stili e contesti resta un’operazione di assoluto interesse.
Le relazioni formali e stilistiche tra gli elementi mediali dell’opera sono fondamentali e, se asimmetriche, diventano più significative degli stessi singoli elementi.
In 4:33 di John Cage l’opera si identifica con la stessa incoerenza stilistica degli elementi: una performance muta da un canto e una sala da concerto tradizionale, dall’altro.
L’uso di materiali originali non facilmente attribuibili ad uno stile preciso semplifica questo processo di adattamento reciproco tra i media. Il valore neutro di un materiale, o di una tecnologia, d’altro canto, si riduce per la connotazione che esso automaticamente assume nell’opera. Un elemento originariamente neutro può risultare assolutamente connotato in pochissimo tempo. Tanto più chiara è la connotazione quanto maggiore è il processo di stilizzazione che ne consegue. Tutto il materiale sovversivo introdotto dalla controcultura degli anni Sessanta, compresa la masturbazione in pubblico di Vito Acconci, oggi ha perso ogni carattere d’originalità e quasi sempre quando viene impiegato produce stupore solo per la banalità del progetto.
4/Assenza di interattività. Affinità tra sound art e software art. L’interattività viene spesso indicata come una caratteristica categorica della sound art. Secondo la tesi qui espressa essa sposta la fruizione dell’opera su di un livello più propriamente afferente ad un’altra forma, autonoma e di diversa matrice: la interactive art. Come già descritto, per arte interattiva intendiamo una forma espressiva direttamente derivata dalla performance art. E anche se la creazione di iperstrumenti, con i loro iperesecutori, potrebbe far apparire la sound art come apparentata con la performative art, ciò è opinabile, dal momento che una performance ha sempre la caratteristica di attrarre l‘attenzione sul gesto del performer, e quindi sulla natura temporale e formale di una esecuzione. Caratteristiche in netta contrapposizione con la natura statica, spaziale, atemporale e non gestuale intrinseca nelle radici più profonde della sound art. Potremmo provocatoriamente dire che la performatività introduce una figura paradossalmente estranea al suono, quella dell’esecutore.
Questo aspetto lo si nota ad esempio nelle performance di Hiroaki Umeda (si veda ad esempio Adapting for Distortion, 2010) dove l’azione e le funzioni assegnate al performer superano ogni altro, pur suggestivo, elemento.
Ovviamente, l’interattività come semplice fenomeno fisico, come naturale relazione di causa ed effetto, o come cimatica, resta parte integrante della sound art.
Autori fondamentali del panorama elettronico minimalista, come Alva Noto o Ryoji Ikeda, basano il proprio lavoro su strette relazioni di causa ed effetto tra audio e video. La sincronizzazione degli elementi pone i media su un livello comune, in cui tuttavia è difficile parlare di interattività; l’opera si manifesta come autonoma dall’esecutore e dotata di una forma omogenea basata su relazioni interne e procedimenti di elaborazione condivisi da ogni elemento costitutivo. I tratti della software art riaffiorano nel formalismo e nella coesione strutturale della produzione elettronica minimalista di questi autori.
5/Applicazioni. La sound art è l’arte di creare relazioni intorno al suono e agli elementi che lo producono, diffondono, diffrangono, etc.. Se finora abbiamo tentato una descrizione dei processi comuni che ne regolano il funzionamento semiotico, proviamo adesso a fornire in modo più particolare degli esempi di riferimento per alcune delle modalità con cui tali processi si attuano.
5.1/Liuteria. Lo sviluppo di tecniche costruttive innovative o alternative, favorisce la capacità di destare interesse per come uno strumento originale genera e articola un suono. Ritroviamo il principio di simmetria tra due media, il suono e lo strumento fisico che lo produce, in cui l’oggetto disvelato (strappato dalla sua natura extrastrutturale) si identifica con la stessa natura acustica congenita in ogni cosa, libera da ogni prassi esecutiva. Le sculture sonore cinetiche sono forse l’esempio più pertinente di questo ambito.
Si vedano gli Untitled Sound Objects (2005-08) di Zimoun & Pe Lang. Gli strumenti automatizzati di Eric Singer. La citata scultura robotica con tubi risonanti Cod.Act di Michel e André Décosterd. Il Concert de cocottes-minute assistées di Patrice Carré. Untitled Sound Sculpture (Chicago, 2009) di Harry Bertoia. La rassegna Sounds of Science performances presentata presso l’AV Festival 2010 (POWEr di artificiel, Sonolevitation di Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand, Dry Ice Harp di Rhodri Davies e Sparklers di Lee Patterson). Gli strumenti di Peter Vogel.
5.2/Installazioni sonore. Si parla solitamente di installazioni quando il progetto di una scultura sonora sfrutta anche la sua contestualizzazione spaziale, ovvero quando si espande all’interno dell’ambiente che la contiene, o viceversa.
Si vedano ad esempio Desibel, di Maja S. K. Ratkje, Geir Hjetland, Bjørn Kolbrek, Torkil Sandsund, Wenche Wefring: un enorme corno di dieci metri e di diverse tonnellate che produce frequenze da 15 a 15000 Hz con un livello di pressione sonora di 130 dB a 10 metri di distanza. Gli strumenti automatizzati di Alvin Lucier, come in Music for Pure Waves,Bass Drums and Acoustic Pendulums (1980) oppure in Music On A Long Thin Wire. Gli storici Rainforest di David Tudor.
Nicolas Collins, autore del citato manuale Hardware Hacking rappresenta indirettamente un esempio importante della natura hacker della liuteria innovativa della sound art e fornisce una riflessione fondamentale sulla natura anticerimoniale della ricerca sonora che in essa agisce.
Sullo stesso piano della ricerca costruttiva si colloca la rilettura funzionale ed esecutiva della liuteria tradizionale. Si pensi a Werner Durand e ai suoi strumenti a fiato che affiancano tubi di plastica e strumenti in PVC a strumenti tradizionali suonati con tecniche non convenzionali.
5.3/Installazioni architettoniche. La sound art incentrata sulla contestualizzazione spaziale ma con implicazioni architettoniche più evidenti rispetto all’originaria accezione di environment, coniata da Allan Kaprow.
Citiamo semplicemente qualche esempio. I lavori di Bernhard Leitner, architetto austriaco e artista (1938). Steve Roden, artista e performer, autore con Brandon LaBelle del fondamentale volume Site Of Sound sulle relazioni tra suono e architettura.[31] L’architettura interattiva di Louis-Philippe Demers, Armin Purkrabek e Phillip Schulze.
Le installazioni di André Werner. L’opera Bass Soundfield di Russell Frehling. L’installazione interattiva The Tunnel under the Atlantic (1995) di Maurice Benayoun e Martin Matalon: un tunnel virtuale in 3D posto tra il Centre Pompidou di Parigi e il Museum of Contemporary Art di Montreal.
Stephen Vitiello, autore del progetto World Views installato presso il 91° piano del World Trade Center (1999), basato sull’ascolto dei suoni emessi dalla struttura dell’edificio. Etc..
5.4/Semantizzazione / Detournement. La capacità di aggiungere alla natura astratta del suono un significato che esso non possiede, o, viceversa, il detournement del significato semantico preesistente.
Pensiamo ancora a Christina Kubisch. E a progetti simili come BUG di Mark Bain: un edificio di Berlino dotato di jack per ascoltare in cuffia i suoni che esso produce.
Citiamo la sonorizzazione di film muti d’epoca di Edison Studio, in cui l’applicazione di tecniche foley[32] si innesta sulla rifunzionalizzazione video di processi compositivi autonomi.
I procedimenti inversi di detournement, risultano basati, oltre che su tecniche differenti, su una componente concettuale che prevede, tipicamente, l’assunzione di toni programmatici. Citiamo, ad esempio la sound poetry o text sound art.[33] O, in una prospettiva dal carattere più sperimentale, opere come abcdefghijklmnopqrstuvwxyz per iPhone di Jörg Piringer, dove la fonetica risemantizza l’alfabeto come semplice campionario acustico, e dove riemerge l’estetica del Traité schaefferiano con la sua presocratica idea di oggettivazione della pratica d’ascolto e del suo simbolismo materiale.
[1]Il concetto di Intermedia, proponendo la fusione e l’interdisciplinarietà tra le arti, dalla letteratura al design, dall’architettura alla musica – con la conseguente nascita di sotto correnti come ad es. la visual poetry – evidenzia la continuità che dalla performance art conduce all’arte interattiva, nella sua accezione originaria di interazione tra discipline e artisti, come arte di creazione e trasformazione di senso e di relazioni. Come si argomenta più dettagliatamente nel paragrafo dedicato alla sound art, l’Intermedia, in realtà, non ha prodotto alcuna effettiva sintesi tra le arti. Da essa sono anzi derivate tutta una serie di sottodiscipline, dalla cui stessa nomenclatura si evince il permanere della posizione gerarchica di una forma sulle altre. I risultati dell’Intermedia restano validi: sottolineare le potenzialità concettuali e culturali insite nello scambio di codici tra arti differenti.
[2] Il volume Entangled: Technology and the Transformation of Performance, di Chris Salter, pubblicato da MIT Press è una lettura fondamentale per un approfondimento sull’uso dei new media in ambito teatrale.
[3] Si veda il testo read_me, Software Art & Cultures, edition 2004, Aarhus Edited by Olga Goriunova & Alexei Shulgin, Digital Aesthetics Research Center, University of Aarhus.
[4] Jenny Holzer e Antoni Muntadas sono i due più noti autori coinvolti dal portale col tentativo di indirizzare l’arte contemporanea all’interno della rete. äda ‘web nel 1997 è stato acquisito dal Walker Art Center di Minneapolis, che tuttavia dal 2003 ha ridotto in modo drastico il proprio impegno per il progetto. Si veda la collezione delle opere su http://gallery9.walkerart.org/.
[5] http://www.diacenter.org/artist_web_projects
[6] Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Milano, Feltrinelli, 2001
[7] Un Bulletin Board System (BBS) è un software che consente di connettere più computer attraverso la linea telefonica, con funzioni di messaggistica e di file sharing. Il sistema è nato negli anni Settanta e rappresenta il punto di partenza della telematica amatoriale. Nota è la rete Fidonet, istitutita da Tom Jennings nel 1984 con Tim Pozar ed altri importanti autori di reti di telecomunicazione.
[8] Tommaso Tozzi (www.hackerart.org) fornisce una lettura estesa su Hacker Art BBS in http://www.hackerart.org/hackerart.htm. Altra lettura fondamentale è Cyberpunk: istruzioni per l’uso di Antonio Caronia.
[9] Culture jamming è un termine traducibile in italiano con ‘sabotaggio culturale’, o con ‘interferenza culturale’.
[10] Si è soliti fare risalire le origini del DIY al movimento Arts and Crafts Movement (John Ruskin) sorto agli inizi del secolo in opposizione all’appiattimento estetico e funzionale dell’industrializzazione nascente.
[11] Vedi l’Urban Dictionary, http://www.urbandictionary.com.
[12] Si ricorda il MFing (Blue Box) creato da John Draper e Steve Wozniak, quest’ultimo fondatore della Apple Computer insieme a Steve Jobs.
[13] Si veda in merito il concetto di grado xerox della cultura della simulazione di Jean Baudrillard. In La sparizione dell’arte, Milano, Politi, 1988.
[14] Lev Manonvich, Software Culture, 2010, Edizioni Olivares. Un buon punto di partenza per un approfondimento può essere l’intervista di Giulia Simi su Digicult, http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1780.
[15] http://www.mikro.in-berlin.de/wiki/tiki-index.php?page=Software+Art
[16] Florian Cramer, Concepts, Notations, Software, Art,
(http://www.wikiartpedia.org/index.php?title=Concepts,_Notations,_Software,_Art), 2002
[17] Antithesis: The dialectics of software art. DARC, Aarhus University, DK (2010). PDF disponibile su http://darc.imv.au.dk/.
[18] Jack Burnham, teorico, critico e curatore, ha coniato il termine Systems art nel 1968, in Systems Esthetics, Artforum (Settembre, 1968), http://www.volny.cz/horvitz/burnham/systems-esthetics.html. Teorizzando una scultura di sistemi contrapposta alla scultura fisica tradizionale di tipo spaziale.
[19] Curata nel 2004 da Peter Weibel e Dominika Szope presso il ZKM | Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe. http://www.zkm.de/algorithmische-revolution/index.php.
[20] Sonic Acts XI, The Anthology of Computer Art a cura di Gideon Kiers, Lucas van der Velden. DVD prodotto in occasione dell’undicesima edizione del festival omonimo (http://2010.sonicacts.com/).
[21] http://readme.runme.org/. I lavori presentati sono pubblicati in Goriunova, Olga, et al. Read_Me Software Art & Cultures. Aarhus: Digital Aesthetics Research Centre, 2004 e in Readme 100 Temporary Software Art Factory, Books on Demand GmbH, Norderstedt, Germany, 2005.
[22] Max Bense, The Projects of Generative Aesthetics (http://www.computerkunst.org/Bense_Manifest.pdf).
[23] Andreas Broeckmann, Notes on the cultural dimensions of software and art ( ars lecture on software / art / culture, 2003).
[24] Sui rapporti tra cultura di massa e videogiochi vedi anche i lavori di Julian Stallabrass.
[25] Gli artisti ospiti di Playlist: Paul B. Davis (UK), Jeff Donaldson / NoteNdo (DE), Dragan Espenschied (DE), Gino Esposto / Micromusic.net (CH), Gijs Gieskes (NL), André Gonçalves (PT), Mike Johnston / Mike in Mono (UK), Joey Mariano / Animal Style (US), Raquel Meyers (SP), Mikro Orchestra (PL), Don Miller / No-carrier (US), Jeremiah Johnson / Nullsleep (US), Tristan Perich (US), Rabato (SP), Gebhard Sengmüller (AT), Alexei Shulgin (RU), Paul Slocum (USA), Tonylight (IT), VjVISUALOOP (IT). La mostra ha prodotto un CD ed un catalogo con testi di Matteo Bittanti, Kevin Driscoll e Joshua Diaz, Ed Halter, Domenico Quaranta.
[26] La formazione artistica del compositore è determinante nell’organizzazione, e spesso nella identificazione, della struttura gerarchica impiegata. La densità e il numero di componenti mediali, inoltre, varia da genere a genere. Ad esempio, come già visto, nel formalismo software l’aspetto multimediale è pressoché assente. Come giustamente rilevato da Florian Cramer (cit.) la composizione 1961 No.1, January 1 di La Monte Young rappresenta un primo esempio di software art. Essa consiste nella semplice istruzione: “Draw a straight line and follow it”. Il loop e l’overflow concettuale contenuti nel codice riassumono l’intero contenuto dell’opera. La collocazione e conformazione materiale dell’opera, ovvero, non conta e non ne intacca il senso autoreferenziale. Un caso analogo nella storia della musica può considerarsi l’Arte della Fuga di Bach (si leggano le osservazioni del padre della concept art, Henry Flint, in Essay: Concept Art), in cui l’aspetto strumentale ed esecutivo non influisce sulla comprensione dell’opera.
[27] A. J. Greimas, 1966, Sémantique structurale, Paris, Larousse (trad. it. Semantica strutturale, Roma, Meltemi, 2000
[28] Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, 1975.
[29] Stimmfeld è una composizione basata su 552 ripetizioni di un sospiro che il performer conta sui nodi di una corda che richiama il labirinto di Chartres.
[30] Hermann Broch, Il kitsch, Einaudi 1997.
[31] Steve Roden & Brandon Labelle, Site Of Sound , Smart Art Press / Errant bodies, Los Angeles, CA.
[32] Per un approfondimento tecnico sulla sound art in ambito cinematografico si veda il testo di David Lewis, Practical Art of Motion Picture Sound, Focal Press, 2007.
[33] Si veda il ricco database presso l’Electronic Poetry Center di Buffalo, http://epc.buffalo.edu/sound/soundpoetry.html